Web tax approvata dalla commissione Bilancio della Camera: chi vuole far scappare Google?

“Pagare le tasse è una cosa bellissima”, disse qualche anno fa un Ministro dell’economia ora scomparso. Sarà, ma qui nessuno ha voglia di pagare le tasse: né noi comuni mortali né le grosse aziende multinazionali, che però, a differenza nostra, possono attuare degli stratagemmi grazie ai quali rimanere nella legalità pur pagando cifre irrisorie rispetto ai loro utili da capogiro.

Le tech companies, Google, Apple, Microsoft, ecc. non sono estranee a questi comportamenti “allegri” sotto il punto di vista fiscale. Anzi, con i loro doppi irish e col celebre panino olandese – attraverso cui vengono creati dei fruttuosi intrecci fra le sedi di Irlanda, Olanda e i paradisi fiscali, per ridurre le tasse al minimo – si sono attirate le attenzioni dei governi europei. Anche quello italiano, per sfortuna nostra e loro.


E sì, perché quando i politici del Bel Paese si mettono in testa di affrontare un problema così complesso e con ramificazioni tanto estese sotto il punto d vista geografico, finisce sempre col nascere un piccolo aborto giuridico che ci fa stare tutti in apprensione. Quello con cui abbiamo a che fare questa volta si chiama Web tax.

Dietro la semplificazione giornalistica del suo appellativo, la Web tax nasconde delle norme secondo le quali «i soggetti passivi che intendano acquistare servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una Partita IVA italiana».

Questo significa che Google, Apple e tutte le altre multinazionali del mondo hi-tech dovrebbero dotarsi obbligatoriamente di una Partita IVA italiana, e quindi pagare un maggior quantitativo di tasse nel nostro paese, anziché trasferire tutto a Dublino.

Chiariamoci: l’intento di fondo sarebbe anche giusto. Se Amazon, Google, ecc. producono della ricchezza nel nostro paese sarebbe corretto averne un ritorno fiscale, ma ci sono un paio di cosette – non da poco – da considerare. In primo luogo, l’Italia è economicamente con l’acqua alla gola, non riesce ad attrarre investimenti stranieri e, statene certi, la strada giusta per uscire dalla crisi non è aumentare le tasse a quelle poche aziende che potrebbero essere ancora così folli da spendere soldi dalle nostre parti.

Vi è poi un aspetto fondamentale, dell’Unione Europea, che i nostri distratti politici evidentemente hanno dimenticato: la libera circolazione dei servizi. Nei 27 paesi che fanno parte dell’unione, una società, basata ovunque all’interno dell’UE, può vendere in tutti gli altri 27 Stati senza avere una sede fissa in ognuno di essi.

Ecco quindi che la Web tax approvata approvata in fretta e furia, venerdì scorso, dalla commissione Bilancio della Camera avrà tutto il tempo di essere approvata definitivamente dal Palazzo (speriamo di no) e ricevere la sua brava bocciatura in sede europea, dove peraltro si stanno studiando soluzioni unificate al problema dell’elusione fiscale da parte delle multinazionali.

Per approfondimenti sulla questione, vi invitiamo a leggere questo pezzo di Tim Worstall su “Forbes” in cui viene spiegato perché la Web tax italiana è sostanzialmente illegale e questa pagina di Wikipedia in cui viene spiegato in dettaglio il sistema irlandese che consente alle tech companies di risparmiare così tanti soldi sulle tasse.

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