La Web tax approvata dal Senato

Giusto in tempo per le festività natalizie, il Senato ha dato il suo OK alla Legge di stabilità e, con essa, è stata approvata anche la tanto discussa Web tax. Per chi non avesse avuto modo di approfondire l’argomento, la cosiddetta Web tax (anche conosciuta come “Google tax” e “Spot tax”) è un emendamento promosso, fra gli altri, dal presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia (Pd) secondo cui “i soggetti passivi che intendano acquistare servizi di pubblicità e link sponsorizzati online anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistateli da soggetti titolari da una partita IVA italiana”.
La norma, inizialmente prevedeva l’obbligo di P. IVA anche per le società di ecommerce ma i borbottii del segretario Pd Renzi sulla questione – ahinoi più delle puntuali critiche dei lavoratori e delle aziende che operano nel settore – hanno spinto gli autori della Web tax a rendere meno duro il proprio pugno.



A questo punto, la tassa proseguirà nel suo iter legislativo passando prima per la pubblicazione in Gazzetta ufficiale e poi entrando effettivamente in vigore (entro gennaio) ma forse c’è ancora una piccola speranza per chi ritiene questa norma una sciagura per tutto il mercato pubblicitario online italiano.
Secondo quanto riporta “Wired”, la Camera ha approvato un ordine del giorno firmato da alcuni parlamentari del Pd per mezzo del quale il Governo dovrà sottoporre la Web tax alla Commissione Europea. Questo significa che se le autorità comunitarie troveranno dei punti di irregolarità o incostituzionalità nella legge (cosa assai probabile) questa dovrà essere modificata, o cestinata, si spera, in attesa che arrivino soluzioni internazionali al problema dell’elusione fiscale delle tech companies.

Nel frattempo, Francesco Boccia ha “festeggiato” l’approvazione della Web tax da parte del Senato pubblicando un pezzo sull’Unità in cui sottolinea le ragioni della normativa:

“Le aziende americane dovrebbero capire che essere buoni cittadini nella Ue è incompatibile con un’evasione fiscale su larga scala”. E queste parole non le dice Francesco Boccia ma il commissario europeo all’agenda digitale. E non perché diventati tutti all’improvviso antiamericani ma solo perché stiamo parlando di un principio di giustizia ed equità che deve valere anche per l’intero mondo digitale.

I giganti del web – che penso abbiano sostituito le sette sorelle del petrolio in quanto a capacità d’influenza sulle decisioni sia politiche che di altro genere – non fatturano la pubblicità raccolta o le vendite realizzate nel nostro Paese ma registrano come ricavi i servizi prestati a un’altra società del gruppo. Questa società si trova in uno Stato a fiscalità più favorevole: Irlanda o Lussemburgo. Penso che ognuno possa trarne le conseguenze del caso. Dal 1 gennaio, invece, già con la sola attivazione della procedura di ruling per le imprese, prevista dalla legge di stabilità, entreranno nelle casse dello Stato minimo 130 milioni di euro, cifra che ha già ottenuto la bollinatura della Ragioneria dello Stato. Considerato che le entrate, finora, sono state pari a zero i conti da fare sono abbastanza facili.

Io non posso sapere cosa deciderà l’Ue nei prossimi mesi né mi intimoriscono folkloristiche reazioni di europarlamentari esagitati o tecnocrati che parlano per nome e per conto di qualcun altro. L’unica cosa certa è che tutti i paesi europei si stanno muovendo esattamente come si è mossa la commissione Bilancio prima e il Parlamento italiano poi. Lo sta facendo la Francia, la Germania, la Spagna e, grazie al presidente Letta il tema sarà all’ordine del giorno del consiglio europeo della prossima primavera. Il sasso che abbiamo lanciato con la nostra proposta ha avuto il primo effetto desiderato.

In conclusione, ecco il tweet dello stesso Boccia che notifica l’approvazione della Web tax e ci mostra il testo dell’emendamento nella sua versione definitiva (quella senza obbligo di partita IVA per le società di ecommerce).